Ti va di imparare a chiedere scusa?
Non saper ammettere i nostri errori è segno di un cattivo rapporto con noi stessə più ancora che con gli altri. La risonanza come pratica per guarire le relazioni, dentro e fuori di noi
Una persona che conosco trasferitasi a Roma da oltreoceano mi diceva che i romani fanno spesso gaslighting. Cioè quando hanno torto difficilmente lo ammettono e rigirano la frittata, fino ad arrivare ad accusare te: “ma quando mai”, “non si può scherzare”, “è una tua percezione”, “prenditela con lui”, “sei tu che mi hai portato a fare questo”...
È molto doloroso quando ci sentiamo feritə a causa di un comportando altrui, lo segnaliamo all’altrə e in risposta riceviamo la negazione del fatto o addirittura una colpevolizzazione per quello che sentiamo.
La conseguenza di questo atteggiamento protratto nel tempo porta alla disconnessione tra le persone, ai cosiddetti atteggiamenti passivo-aggressivi, e a proteggersi dall’essere feritə chiudendosi all’altrə. In pratica, quello che nessunə dei due vuole davvero, e da cui in realtà si sta difendendo.
In questo post provo a spiegare cosa c’è all’origine dell’incapacità di assumersi la responsabilità per l’impatto sugli altri dei propri comportamenti e propongo una pratica relazionale che può aiutare a riparare le rotture che avvengono nei rapporti.
Se vuoi un’occasione per praticare queste cose in un contesto guidato e sicuro, nell’articolo trovi anche il riferimento a un’occasione per farlo dal vivo e in modo esperienziale.
Perché ci ferisce così tanto
Al contrario di quanto siamo portati a pensare, il motivo per cui siamo feriti quando gli altri non riconoscono i propri errori nei nostri confronti non dipende dal fatto che non ci venga data ragione. Se non comprendiamo la radice della ferita finiamo per irrigidirci intorno a definizioni di ragione e torto, verità e menzogna, giustizia e colpa.
L’assenza di volontà di assumersi la responsabilità delle proprie azioni ci ferisce perché ci segnala l’interruzione della relazione: non mi interessa sapere il tuo vissuto, non mi importa se stai soffrendo per qualcosa che ho fatto io, non sono dispostə a relazionarmi con il tuo vissuto perché non voglio mettere in discussione i miei comportamenti.
Ci sentiamo esclusə dall’altrə, non importanti, non presi in considerazione, e non tenutə a cuore.
Perché accade
L’incapacità di comprendere l’altrə quando ci segnala di essere statə feritə da nostri comportamenti è una conseguenza del modo in cui siamo stati cresciutə.
Se commettavamo degli errori venivano giudicatə non per quei fatti specifici, ma come persone “cattivə”. Se protestavamo e provavamo a spiegarci, non ci veniva concesso. Se rivendicavamo la nostra buona fede, ricevevamo in risposta una escalation di accuse il cui obiettivo era farci vergognare di noi stessə.
Sono i cardini di quella pedagogia che Alice Miller chiamava “nera” o “velenosa” e che purtroppo anche in buona fede informa la gran parte delle nostre modalità per “far crescere” o “far capire” gli altri.
Come dice Mark Ettensohn, “sentirsi fraintesi o mal caratterizzati nell’infanzia è una forma di trauma relazionale che crea ferite profonde, mettendo il bambino in via di sviluppo in conflitto con i suoi bisogni emotivi e sociali”.1
La conseguenza è che ogni volta che ci sentiamo criticati tendiamo a rivivere quel senso di non essere vistə, o ancor peggio di sentirci rifiutatə come persone. E quello stato emotivo ci rende incapaci di riflettere sulle nostre azioni.
La strada della compassione per se stessə
Una familiare a me molto vicina quando fa un errore, o si dimentica qualcosa, dice “sono una stupida!”. Questo è passare dal considerare un’azione a definire se stessi. Non a caso la stessa persona ha una grande difficoltà a ricevere la più piccola critica o appunto sull’impatto dei suoi comportamenti.
La disidentificazione tra giudizio su se stessə come persone e valutazione delle proprie azioni è l’unica cosa che paradossalmente consente un senso di responsabilità perché rende possibile un ascolto non difensivo: se non sono attaccato come persona, nella mia identità, è più facile riconoscere un errore.
Come si legge sul sito del Centro per l’autocompassione consapevole,
L’autocompassione fornisce la sicurezza necessaria per ammettere i propri errori, anziché dover dare la colpa a qualcun altro. La ricerca mostra anche che le persone autocompassionevoli si assumono una maggiore responsabilità personale per le proprie azioni (Leary et al., 2007) e sono più propense a scusarsi se hanno offeso qualcuno (Brienes & Chen, 2012).2
Il gioco delle parti
Mi ricordo la sorpresa quando dopo un’esperienza di gruppo, la mia psicoterapeuta mi chiese di esprimere tutti i giudizi e i fastidi che erano emersi nei confronti di alcune persone, e provare a vedere se quelle persone o quei comportamenti potevano essere parti di me che non accettavo e che gli altri in quel momento avevano richiamato. Fu sorprendente quanto fosse quasi matematicamente vero in tutti i casi in quell’occasione.
La psicologia è concorde nel ritenere che dentro ognuno di noi esistano delle subpersonalità, delle parti, che spesso agiscono in modo autonomo, prendendo il sopravvento a nostra insaputa. Le relazioni con gli altri sono uno dei maggiori trigger per l’attivazione di queste sub-personalità.
Diversi approcci terapeutici che stanno riscontrando molta efficacia, come Internal Family Systems (terapia dei sistemi familiari interni), individuano la chiave della trasformazione nella capacità di instaurare relazioni di ascolto e comprensione verso queste parti da parte del nostro sé consapevole e adulto.
Come possiamo “fare amicizia” con parti di noi stessi? La risposta è: nello stesso modo in cui facciamo amicizia con chiunque altro. Mostriamo interesse e curiosità, vogliamo sapere cosa fa scattare l’altra persona: i suoi gusti e le sue antipatie, le sue paure e fantasie, le sue abitudini e i suoi limiti. Questo significa ascoltare, sentire davvero quest’altro essere. Imparare ad ascoltare i nostri sentimenti, pensieri, comportamenti, impulsi, immagini e sogni angoscianti come comunicazioni provenienti dalle nostre parti.3
La differenza sostanziale tra intenzioni e impatto
Questa capacità di differenziazione, di ascolto e di osservazione non giudicante è anche quello che rende possibile distinguere le intenzioni dietro i nostri comportamenti dal loro impatto sugli altri. Infatti, uno dei modi con cui evitiamo di assumerci responsabilità delle nostre azioni e di comprendere l’esperienza altrui, è schermandoci dietro le nostre “buone intenzioni”.
Come scrive Elizabeth Perry,
L’intento è ciò che pensi o senti; l’impatto è come le tue azioni fanno sentire un’altra persona. L’intento è ciò che sei; l’impatto è ciò che hai fatto. La tua personalità può essere legata alle tue intenzioni, il che significa che le tue buone intenzioni dimostrano che potresti voler fare del bene. Ma il tuo impatto è ciò che hai fatto. Non riflette necessariamente chi sei.
Se l’altra persona si sente ferita o offesa, non ignorare i suoi sentimenti. Non importa che non volevi che si sentisse in questo modo. La realtà è che si sente così.4
La pratica relazionale chiave: porgere scuse autentiche
Lo strumento chiave per l’ascolto e riflessione sulle proprie azioni, e l’atto di riparazione con l’altro, sono le scuse.
Spesso vediamo nelle scuse una sorta di capitolazione, di ammissione di colpa, di auto condanna. E ci spingiamo a farle solo in quei rari casi in cui ci sentiamo in grave errore, spesso in modo costernato. E se invece le normalizzassimo, facendone uno strumento di ecologia relazionale, una pratica di consapevolezza, e un’opportunità di sintonizzazione con gli altri?
Come scrive la formatrice di giustizia riparativa Mia Mingus, “la responsabilità è generativa, non punitiva. È una pratica di interdipendenza”.5
Esther Perell ha invece raccolto gli elementi cardine di “una buona richiesta di scuse”:
Consapevolezza di ciò che hai fatto
Responsabilità per il tuo comportamento
Riconoscimento dell’impatto che ciò ha avuto sull’altra persona, pure se anche lei ti ha ferito.
“Da questa posizione”, scrive, “puoi assumerti la responsabilità senza bisogno che l’altra persona ti convalidi, ti riscatti o ti perdoni. Fai semplicemente la tua parte, per il bene della relazione”.6
Per capire cosa fa di una richiesta di scuse un atto di ascolto e considerazione dell’altro, e cosa ne fa invece solo un’apparenza o ancora peggio un riversare la responsabilità sugli altri, è forse più utile vedere le affermazioni che non bisognerebbe fare in una buona richiesta di scuse. Alexandra Hall su The Minds Journal ha raccolta una buona casistica:
“Mi dispiace che tu ti sia arrabbiatə”. Invece di assumerti la responsabilità delle tue azioni che hanno causato il turbamento, questa affermazione sposta l’attenzione sullo stato emotivo dell’altra persona.
“Non era mia intenzione farti del male”. (vedi sopra).
“Mi dispiace, ma anche tu eri in colpa”. Incolpare l’altra persona per il suo ruolo nella situazione distoglie l’attenzione dalle tue azioni.
“Mi dispiace, ma sei tu quello che mi ha frainteso”. In pratica stai attribuendo tutta la colpa all’altra persona.
“Mi dispiace che tu ti senta così”. Questa affermazione non riconosce il tuo ruolo nel causare i sentimenti dell’altra persona.
“Mi dispiace, ma non pensavo fosse un grosso problema / Stavo solo scherzando”. Questa affermazione minimizza l’impatto delle tue azioni sull’altra persona.
“Mi dispiace, ma tutti commettono errori”. Questa affermazione riconosce che commettere errori è un evento comune, ma non riconosce direttamente il danno causato dalle azioni specifiche e non sembra esprimere un sincero rammarico.7
Come scrive Harriet Lerner, psicologa clinica e autrice di “Perché non ti scusi? Guarire dai grandi tradimenti e dalle ferite quotidiane”:
Una buona scusa è quando ci assumiamo la responsabilità in modo chiaro e diretto, senza il minimo accenno di evasione, di colpevolizzazione, di offuscamento o di giustificazione, e senza tirare in ballo i “precedenti penali” dell’altra persona.
La strada della risonanza
“Come suona la tua voce interiore? Fermati un attimo per ascoltarla”, invita a fare l’esperta di neurobiologia interpersonale Sarah Peyton nel suo libro Your Resonant Self.
Nella mia esperienza ci sono momenti in cui ascoltare la propria voce interiore è talmente sopraffacente che non riesco a farlo, mi devo mettere a fare altro, a coprirla con altri pensieri. Anche se non possiamo sentire questa voce, possiamo immaginare il tono che ha dal modo in cui trattiamo noi stessə o dal modo in cui pensiamo agli altri.8
Quello che evitiamo davvero nel confrontarci con il giudizio degli altri, è il giudizio che abbiamo introiettato di noi stessə. E’ quello del nostro io interiore il giudizio che temiamo di più. Cerchiamo di tenerlo a bada attraverso strategie di evitamento, una delle quali è rifiutare il confronto con l’impatto delle nostre azioni sugli altri. Ma se guarissimo il problema alla radice, cambiando quel tono della voce interiore?
“Quando le persone cambiano il modo in cui parlano a loro stesse, cambiano il modo in cui il loro cervello funziona”, scrive sempre Sarah Payton. Questo cambiamento è parte di quelle che lei chiama “capacità di risonanza”.
Il linguaggio risonante è il linguaggio che dà alle persone un senso di essere comprese.
Attraverso pratiche semplici e guidate il percorso “RISONANZA: rigenerare la capacità di connessione umana” è un’opportunità per apprendere ed esercitare questo linguaggio con noi stessə e con gli altri.
“Mentre vogliamo spesso risolvere i nostri problemi tutto da noi”, scrive Sarah Peyton, “non possiamo farlo da solə. Abbiamo bisogno di altre persone e la loro gentilezza per guarire e fiorire. Siamo animali sociali creati per vivere in gruppi.”
L’impatto dello sviluppo delle capacità di assumerci la responsabilità dei nostri comportamenti non riguarda infatti solo la vita personale o le nostre relazioni intime. Significa liberare spazio ed energie anche collettive, riparando i conflitti e usandoli per far crescere le nostre relazioni, invece che disfare i rapporti faticosamente costruiti in un mondo che tende a isolarci sempre di più.
Per restare informatə sul percorso RISONANZA puoi lasciare i tuoi recapiti su questo modulo:
https://forms.gle/3TkZy5BfpSHKCwUW6
Mark Ettensohn, “The Legacy of Relational Trauma in NPD”,
Center for Mindful Self-Compassion, “What is Self-Compassion?”, https://centerformsc.org/pages/what-is-self-compassion
Janina Fisher, Ph.D., Learning to Love Our “Selves”, Psychotherapy Networker (2012)
Elizabeth Perry, “Intent versus impact: a formula for better communication”, BeeterUp, 14 luglio 2021, https://www.betterup.com/blog/intent-vs-impact
Mia Mingus, “The Four Parts of Accountability & How To Give A Genuine Apology”, 18 dicembre 2019, https://leavingevidence.wordpress.com/2019/12/18/how-to-give-a-good-apology-part-1-the-four-parts-of-accountability/
Alexandra Hall, “How To Give A Sincere Apology?”, The Minds Journal, 30 maggio, 2023, https://themindsjournal.com/how-to-give-a-sincere-apology/


