Se le relazioni umane riproducono i codici dell’“impero”
La comunità è spesso vista come soluzione a tutti i problemi. Ma senza riapprendere capacità esiliate dalla modernità, rischia di riprodurre gli stessi meccanismi del contesto sociale. Una proposta
E’ un’idea molto diffusa che per risolvere la gran parte dei problemi sociali occorrerebbe più senso di comunità, solidarietà e relazioni umane.
Una persona conosciuta di recente, che sta creando un luogo in natura per ospitare altre persone desiderose di vivere in comunità, alla domanda sul cosa lo spingesse a farlo, mi ha risposto: “per essere meno dipendente dai sistemi distruttivi”.
Ma che succede se le relazioni umane sono seriamente impattate da questi sistemi distruttivi, tanto da riprodurne alcuni dei meccanismi?
Quando pensiamo a una comunità visualizziamo pranzi condivisi, momenti di festa, persone sedute in cerchio, abbracci. Ma non è possibile mettere insieme da due persone in su senza far entrare nello spazio anche tutto il lascito di emozioni rimosse, ruoli non autentici assunti per essere accettatə, atteggiamenti reattivi inconsapevoli usati per difendersi da ambienti sociali tossici, paure su come possiamo essere percepiti dagli altri che diventano subdolamente giudizi su di loro.
Proprio ciò che rende le relazioni umane così potenti e indispensabili per la sopravvivenza e fioritura umana, è anche quello che le rende così delicate e sensibili al contesto sociale in cui si sviluppano.
La verità è che l’individualismo, gli appartamenti isolati, la famiglia nucleare, il culto dell’autosufficienza, la socialità ostentata e performativa dei social media ci difendono.
La nostra cultura ci offre un’infinità di strumenti per difenderci dall’assenza di relazioni autentiche, cioè relazioni di reale vulnerabilità e interdipendenza con gli altri.
Quando ci diciamo di voler creare comunità, le poche e i pochi tra noi che si avventurano in questo spazio immaginano eventi (workshop, ritiri, feste, cene), o infrastrutture (vacanze insieme, case vicine, ecovillaggi). Sono entrambi ingredienti decisivi e indispensabili, ma quello che è più necessario, negato e anelato dai nostri cuori sono le capacità esiliate dalla modernità di vedere, ascoltare, risuonare tra noi in un modo che ci faccia sentire davvero vistə, rispettatə ed accoltə.
E che accolga la necessità che avremo di tirare fuori tutti i condizionamenti, le paure e i meccanicismi appresi crescendo sotto le regole dell’impero (mi prendo la licenza e responsabilità di questa citazione un po’ mitomane, ma che alla fine rende l’idea).
Tra la fine dell’estate e l’inverno vorrei avviare un processo per iniziare a riapprendere e coltivare queste capacità.
Vorrà dire commettere errori, ingenuità, esporsi a frustrazioni. Ma anche riscoprire qualcosa di profondamente umano e vitale.
Negli ultimi anni ho fatto studi, esperimenti e riflessioni intense su questo: dal lavorare come community organizer negli Stati Uniti e in Italia, ai percorsi sul relazionarsi autentico, dalla formazione sull’indagine compassionevole sul trauma con Gabor Maté, fino a facilitare io stesso formazioni, workshop e ritiri.
Vorrei chiamare questo percorso RISONANZA.
A chi risuona? :)



Condivido molto la riflessione, seguirei con piacere il futuro di questo percorso!
Condivido pienamente. Il senso di comunità necessario al benessere collettivo deve passare per forza attraverso una conoscenza dei modelli chiamiamoli storici di sociale soprattutto esplorando quelli sommersi, che non ci vengono raccontati e che invece narrano possibilità diverse di poter stare insieme.