Perché quando ci teniamo per mano il mondo ci fa meno paura
Per spiegarlo una teoria neuroscientifica rivoluzionaria suggerisce che l’individualismo non sia una condizione naturale, ma un esperimento collettivo dall’esito devastante

Nel 2009, a Modena, durante alcuni scavi per costruire delle palazzine, venne scoperta un’intera necropoli antica. Al suo interno, gli archeologi trovarono gli scheletri di due persone morte mentre si tenevano per mano.
Jim Coan, neuroscienziato che ha studiato cosa accade nel cervello quando ci stringiamo la mano, parte proprio da questa immagine per introdurre la sua “Social Baseline Theory” — la teoria che ha cambiato il modo di intendere il cervello umano — in una delle sue originali pubblicazioni divulgative a fumetti.1
Coan è noto per il suo contributo agli studi che hanno dimostrato come tenere la mano del proprio partner sia l’unico intervento non farmacologico conosciuto in grado di ridurre in modo significativo il dolore fisico, diminuendo l’attività nervosa alla sua fonte.2
La connessione umana ha un effetto così profondo da modificare la nostra realtà corporea.
Come è possibile?
Toccare la mente
Coan si interessò agli effetti del contatto fisico quando stava seguendo in terapia un veterano della Seconda guerra mondiale affetto da “disturbo post-traumatico da stress a insorgenza tardiva”.
Quest’uomo aveva vissuto esperienze orribili in guerra, ma non riusciva a parlarne, bloccando così ogni possibilità di guarigione.
Un giorno chiese che la moglie potesse partecipare alla seduta. Con lei seduta accanto, tentò di raccontare ancora una volta la propria storia, ma si bloccò. Fu allora che la moglie, con un gesto semplice ma decisivo, gli prese la mano.
L’effetto non fu quello che Coan si aspettava: il marito non si calmò, al contrario esplose in un’ondata di singhiozzi, ma finalmente riuscì a raccontare ciò che aveva tenuto dentro per più di cinquant’anni.
Quel gesto non lo aveva rasserenato — gli aveva dato la forza per affrontare un lavoro emotivo profondo e temuto per decenni.
Quell’episodio instillò nella mente di Coan una domanda cruciale: come può il semplice gesto di tenere una mano cambiare radicalmente ciò che il cervello è in grado di fare?
L’ipotesi che non torna
Per rispondere, Coan progettò uno studio con risonanza magnetica funzionale (fMRI).
I partecipanti venivano sottoposti alla minaccia di una lieve scossa elettrica, in tre condizioni diverse: da soli, tenendo la mano di uno sconosciuto o quella del proprio partner.
L’ipotesi iniziale, basata sulle conoscenze del tempo, era che il sostegno sociale attivasse la corteccia prefrontale, sede dell’autocontrollo, la quale avrebbe poi inibito le aree cerebrali delle emozioni.
I risultati, però, smentirono completamente l’ipotesi.
Durante il contatto fisico, le aree emotive erano meno attive, ma anche la corteccia prefrontale mostrava un’attività ridotta: il cervello, nel complesso, sembrava lavorare di meno.
“Era come se la mano di Dio stesse regolando direttamente il cervello. Dov’era il meccanismo?”, si chiese Coan.
Ridefinire la “linea di base”
In ogni esperimento, la “linea di base” è la condizione neutra con cui si confrontano tutte le altre.
Per decenni la psicologia aveva dato per scontato che questa condizione fosse l’individuo solo in una stanza — il cervello isolato come punto di riferimento.
I risultati insoliti dello studio di Coan portarono invece a un’intuizione folgorante: e se fosse la connessione sociale, e non la solitudine, lo stato di base del cervello umano?
Questa nuova cornice risolse il mistero all’istante: la corteccia prefrontale non veniva “spenta” dal contatto fisico — veniva “accesa” dalla solitudine.
Quando affrontiamo una minaccia da soli, il cervello deve attivare in autonomia i circuiti di regolazione, e questo aumento di sforzo cognitivo e fisiologico è associato a sofferenza, stress e peggioramento della salute.
Le relazioni, l’habitat umano
Questa nuova prospettiva affonda le radici in una visione ecologica dell’essere umano.
Mentre animali come le salamandre sono adattati a un ambiente fisico specifico — fresco, buio e umido — gli esseri umani non hanno un habitat terrestre unico. L’unica costante dell’ambiente umano, in ogni cultura e latitudine, è la presenza di altri esseri umani.
È da qui che nasce la “Social Baseline Theory”, la teoria di Jim Coan che sostiene che lo stato di base — o “di riferimento” — del cervello umano sia la connessione sociale.
Questi fatti suggeriscono che l’ecologia dominante alla quale gli esseri umani sono adattati è costituita da altri esseri umani, e introducono il primo senso in cui la nostra teoria fa riferimento alla linea di base sociale — ossia che la stretta prossimità a risorse sociali rappresenta l’aspettativa di base del cervello umano.
A nostro avviso, il cervello umano è progettato per assumere di essere incorporato all’interno di una rete sociale relativamente prevedibile, caratterizzata da familiarità, attenzione congiunta, obiettivi condivisi e interdipendenza.3
Possiamo accedere a un io espanso
I risultati sconcertanti della risonanza magnetica di Coan rimasero un enigma fino a quando egli incontrò un collega, Dennis Proffitt, che lo introdusse al campo dell’ecologia comportamentale — lo studio di come gli organismi gestiscono l’energia.
Questa nuova prospettiva fornì il tassello mancante.
Proffitt aveva condotto studi sorprendenti mostrando che, quando una persona indossa uno zaino pesante, una collina davanti a sé appare significativamente più ripida: il cervello regola la percezione in base al costo energetico, il termine esatto è “metabolico”, previsto della salita.
Ma Proffitt scoprì qualcosa che avrebbe cambiato per sempre il lavoro di Coan: se la stessa persona con lo zaino pesante si trova accanto a un amico fidato, la collina appare improvvisamente meno ripida.
Il peso fisico non è cambiato — ma il cervello ricalcola lo sforzo richiesto, percependo l’amico come una risorsa disponibile e distribuendo così il carico metabolico.
Questo esperimento demolisce la distinzione tra “supporto emotivo” e “realtà fisica”. Il cervello interpreta le risorse sociali come risorse bioenergetiche, proprio come l’ossigeno o il glucosio.
Molti teorici hanno suggerito che il sé sia “espanso” dalle relazioni con gli altri.
Questo potrebbe essere letteralmente vero a livello neurale.
Quando le risorse sociali sono disponibili, siamo espansi, più grandi, più capaci di affrontare le richieste dell’ambiente.
Quando le risorse sociali sono assenti, inaffidabili o perdute, il nostro senso del sé si riduce, insieme sia all’efficacia oggettiva sia a quella soggettiva.4
Fiducia e vulnerabilità
Ma gli effetti regolatori della presenza sociale non sono automatici: dipendono fortemente dalla qualità della relazione.
Come scrive Coan:
Questi effetti sono potenziati da una maggiore qualità della relazione, da un più alto grado di intimità e da una maggiore percezione di reciprocità. Gli individui che hanno sperimentato più comportamenti di sostegno materno e un maggiore capitale sociale di quartiere durante l’infanzia risultano più ricettivi alla regolazione sociale in età adulta. Inoltre, una terapia di coppia progettata per migliorare la qualità dei legami di attaccamento aumenta anch’essa la ricettività alla regolazione sociale dell’elaborazione delle minacce.5
La spiegazione che dà Coan è ancora una volta evolutiva. Affinché il cervello “abbassi la guardia”, deve percepire che l’altro è una risorsa affidabile.
Da un punto di vista evolutivo, infatti, la situazione più pericolosa non è essere soli, ma credere di avere supporto quando in realtà non lo si ha — perché porta a interrompere il lavoro di autodifesa necessario alla sopravvivenza. Ci fa abbassare la guardia proprio quando siamo più esposti ai rischi.
La cura
Tutto questo sposta la connessione sociale dal “bello da avere” al “necessario per vivere”.
Ci sfida a considerare le nostre relazioni non come un lusso, ma come l’infrastruttura fondamentale per la nostra salute e resilienza.
Si tratta di un processo bidirezionale, che implica molto più del semplice ricevere supporto.
Le ricerche mostrano che far sentire una persona sola socialmente utile è un intervento molto più efficace che offrirle semplicemente compagnia.
Il vero senso di connessione nasce dagli atti reciproci di dare e ricevere, che segnalano a tutte le parti coinvolte che i bisogni fondamentali di connessione umana sono riconosciuti e soddisfatti.
Che fare?
Il claim di questo substack, Rigenerazionale, è:
Per curare le ferite più profonde del nostro pianeta, dobbiamo rigenerare la capacità di connessione umana.
Se le relazioni sono il nostro habitat, la condizione di base che ci consente di star bene e fiorire, ma anche il più potente alleato nelle crisi, si direbbe che la nostra epoca più che mai richiederebbe di coltivarle.
Invece siamo sempre più isolati.
Parte di questa disconnessione deriva da ragioni economiche, demografiche, tecnologiche e abitative. Ma una parte importante dipende dalla nostra cultura che ci ha resi incapaci di coltivare relazioni umane nutrienti e connesse, e anzi ci espone a continue ferite relazionali che attivano difese automatiche in forma di disconnessione, isolamento e aggressività.
Come abbiamo visto dai risultati delle ricerche di Coan, è la qualità delle relazioni che conta. Come facciamo a ricrearle?
IN RISONANZA - rigenerare la capacità di connessione umana è un percorso creato appositamente per questo.
Se vivi a Roma e ti interessa partecipare compila questo modulo:
https://forms.gle/7zTx1N5JD2SY9iKG8
Coan, J.A. (2022). Why Do We Hold Hands? Virginia Quarterly Review 98(4), 14-19. https://www.vqronline.org/winter-2022/drawing-it-out-columns/why-do-we-hold-hands
López-Solà M., Geuter S., Koban L., Coan J.A., Wager T.D. (2019). Brain mechanisms of social touch-induced analgesia. Pain. 160(9), 2072–2085. https://journals.lww.com/pain/abstract/2019/09000/brain_mechanisms_of_social_touch_induced_analgesia.17.aspx
Beckes, L. & Coan, J.A. (2011). Social Baseline Theory: The Role of Social Proximity in Emotion and Economy of Action. Social and Personality Psychology Compass, 5: 976–988. https://compass.onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/j.1751-9004.2011.00400.x
Coan, J.A. & Sbarra, D.A. (2015). Social Baseline Theory: The Social Regulation of Risk and Effort. Current Opinion in Psychology, 1: 87–91. https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S2352250X14000396
Idem


