La pandemia da Covid è stata uno specchio delle nostre relazioni
Il suo lascito è ancora tra noi. Tra conflitti rimossi, elaborazioni mancate e normalizzazione del trauma collettivo
Secondo articolo delle due puntate sul trauma collettivo. La prima è qui.
Sembra passato moltissimo tempo dalla pandemia, e se n’è parlato talmente tanto che la sensazione è che non ci sia più niente da dire. Anzi, c’è spesso il desiderio di non sentirne più parlare.
Eppure credo che siamo in moltə ad avvertire che c’è qualcosa che ci è rimasto dentro da quell’esperienza. Qualcosa che non è stato davvero processato. Qualcosa che è stato coperto alla bene e male, ma non davvero sepolto. E che potrebbe riemergere da un momento all’altro — non solo perché nuove pandemie sono possibili, se non probabili, ma per qualcosa di più profondo: un senso di fragilità e instabilità del mondo e del modo in cui viviamo.
La pandemia non ha solo interrotto: ha rivelato
Penso che sia rivelatorio il modo in cui abbiamo affrontato la pandemia come società. È stata una cesura, certo, ma anche un’intensificazione di caratteristiche già presenti nella nostra cultura.
Parlo di assetti strutturali perché non si tratta solo delle misure d’emergenza: è emersa un’incapacità collettiva di farsi carico delle conseguenze emotive di alcune caratteristiche già presenti nel nostro modo di vivere. Ne elenco alcune, senza pretesa di esaustività:
L’ossessione per i numeri: la conferenza stampa con i dati quotidiani su contagi e decessi, le curve, le soglie. Tutto ridotto a quantità, a qualcosa di esterno, misurabile. Un approccio che aveva certamente senso per le autorità governative e sanitarie, ma il fatto che anche le persone comuni abbiano diretto tutta la loro attenzione lì è un segno dell’assenza nella nostra cultura di una capacità di rivolgere l’attenzione all’interno e alle percezioni emotive, somatiche, relazionali, non solo quantitative, oggettive, esterne.
La rapida dissoluzione del senso di solidarietà: dai canti dai balconi e i saluti per strada, agli insulti a chi correva da solə, o ai “covidioti”, il disprezzo reciproco tra chi seguiva o meno le misure di sicurezza.
Lo scontro feroce tra vaccinati e non vaccinati, con piani di realtà ormai incomunicabili. Anche in questo caso, una comunicazione tutta spostata sui dati, senza alcun tentativo di comprendere le paure e le emozioni sottese alle diverse scelte.
La sottovalutazione dell’impatto dell’isolamento, con tutta l’attenzione concentrata sul “distanziamento sociale”. Non è un caso che la ventilazione degli spazi, unica misura che permetteva la presenza reciproca in sicurezza, è rimasta di gran lunga marginale come raccomandazione o obbligo rispetto a mascherine e lavaggio delle mani.
L’ansia di tornare alla normalità appena le restrizioni si sono allentate ci siamo fiondatə con foga in viaggi, locali, piazze. Nessun tempo per elaborare il lutto — non solo per le vite perse, ma per le parti della propria vita accantonate o sospese in quegli anni.
Un rimosso collettivo che si sente ancora nell’aria
Di tanti ritiri, workshop olistici, costellazioni familiari o cerimonie di cacao organizzati durante o subito dopo la pandemia, quanti sono stati davvero dedicati a processare quel carico emotivo collettivo? Che io sappia, praticamente nessuno.1
E di tanti appelli alla pace o al dialogo, quanti hanno provato a sanare il conflitto profondo che si è creato attorno a vaccini e misure di sicurezza? Di nuovo, nessuno.2
Molte persone che si insultavano sui social si sono poi ritrovate a lavorare insieme, a condividere spazi, relazioni, hobby, facendo finta di niente. Senza tornare mai su quello che era accaduto tra loro.
Una parte di noi ha normalizzato
Non so voi, ma a rileggere tutto questo provo uno strano sdoppiamento. Una parte di me pensa: “assurdo che sia davvero accaduto così”. L’altra, che per andare avanti c’era dentro fino al collo — e in parte ha contribuito — tende a minimizzare.
Nell’articolo precedente citavo Thomas Hübl: percepire i traumi collettivi è difficile perché "è come cercare di vedere una casa dall’esterno senza poterne uscire".
E come scrive Gabor Maté nell’introduzione al libro Il mito della normalità. Trauma, malattia e guarigione in una cultura tossica, “le realtà più ovvie, ubiquitarie e importanti sono spesso quelle più difficili da vedere e da commentare”.
E continua:
“In altri termini, sono proprio le caratteristiche della vita quotidiana apparentemente più normali che hanno disperatamente bisogno di essere sottoposte a un esame minuzioso. Soddisfare gli attuali criteri della normalità significa, per molti versi, conformarsi a richieste profondamente anormali rispetto alle esigenze della nostra natura, dunque malsane e dannose sul piano fisiologico, mentale e persino spirituale.”
La disconnessione non è un errore: è sistemica
Possiamo e dobbiamo parlare delle oppressioni subite da popolazioni marginalizzate, dell’omotransfobia, del razzismo sistemico, del colonialismo, dell’islamofobia, dell’antisemitismo, dei diritti dei popoli indigeni. Ma — a meno che non facciamo parte di quelle comunità — se tendiamo più che altro a farcene portavoce può essere uno dei modi con cui evitiamo il confronto con il nostro senso di disconnessione, oppressione e vulnerabilità.
Viviamo in una società che nega i bisogni relazionali di base, e questa negazione ci attraversa, ci plasma. Ci sembra normale. Per questo non vediamo il trauma relazionale su di noi. E non vediamo quando lo riproduciamo.
Senza questo lavoro collettivo le società in cui viviamo continueranno ad essere basate sull’oppressione dei bisogni umani di base, colpendo in modo discriminatorio le persone con meno potere, risorse, relazioni, e comunanza con chi è in posizioni di privilegio.
La risposta non è “là fuori”. Ma neanche solo dentro di noi
Per iniziare a fare qualcosa, serve luce e consapevolezza sul nostro dolore. Serve ammetterci vulnerabili, ammetterci corresponsabili. Ma serve allo stesso tempo riconoscere che la risposta non può essere solo individuale.
La risposta richiede il coinvolgimento degli altri. Ma richiede allo stesso tempo la capacità di relazionarsi senza negare, minimizzare, o riprodurre quella stessa disconnessione che cerchiamo di superare.
🌿 Webinar: “Creare comunità all'interno dei traumi collettivi”
Martedì prossimo, nel webinar “Creare comunità all’interno dei traumi collettivi”, condividerò alcuni paradigmi scientifici e alcune pratiche relazionali che provano ad affrontare questi temi anche all’interno dell’attivismo e del cambiamento sociale.
🔗 Per iscriversi (o condividere): https://communityorganizing.it/project/collasso/#incontri
Subito dopo la pandemia lanciai senza successo un percorso in 4 incontri per “processare la pandemia”.
Grazie ai gruppi Ecstatic dance Roma e Movement medicine con Tamara riuscii a fare un piccolo esperimento pilota che, pur riuscito, non ha però avuto continuità.