Di forni in terra cruda, piantare alberi e altre parole rifugio
Come uccidere il potenziale trasformativo delle associazioni con il bisogno di rassicurazione identitaria
Riflessioni dopo un incontro con una nuova associazione
Qualche giorno fa ho partecipato alla presentazione di una nuova associazione che si occupa di un tema bello, che mi sta a cuore.
Eppure, man mano che ascoltavo, sentivo crescere un senso di distacco e delusione. All’inizio non capivo da dove venisse. Poi ho iniziato a prestare attenzione ad alcune parole, che mi suonavano stonate.
Già nei primi minuti, chi presentava ha raccontato che l’associazione era nata anche per distinguersi da altri attori che avevano iniziato a usare lo stesso nome in modo incoerente con i suoi valori.
Da lì si è passati rapidamente a elencare “i valori” da preservare, e poi – quasi inevitabilmente – a un’inflazione del pronome "noi".
Successivamente sono state descritte alcune procedure riservate agli associati. Ma erano azioni presentate come fini a sé stesse. Non era chiaro cosa avrebbero dovuto innescare, quale impatto cercassero, o come si inserissero nella complessità del contesto in cui avrebbero agito. Un elenco di azioni autoesplicative e isolate.
Voglio chiarire: ritengo prezioso il tema che l’associazione vuole coltivare, e penso che la sua creazione sia un atto importante e generoso da parte di chi l’ha fondata. Il problema è che tra identità, carta dei valori e carta dei servizi, si rischi di perdere – già in partenza – il perché.
Il rischio dell’identità
Il senso di identità e appartenenza è un potente motore. Ci fa sentire parte di qualcosa, ci rassicura. Ma spesso ci fa dimenticare che le azioni che per noi hanno senso possono non averne per altri. E possono non avere alcun impatto fuori dalla nostra bolla di simili.
Durante l’incontro si è parlato spesso dell’importanza di “essere rappresentati” e di “sedersi al tavolo” con le istituzioni. Mi ha colpito quanto queste metafore fossero statiche. Non indicano un processo, ma una posizione. Come se bastasse aggiungere una sedia a un tavolo perché qualcosa cambi. Ma cosa cambia davvero? La qualità della comunicazione? Le priorità? I rapporti di forza? Chi ha detto che sia a quel tavolo che avviene il cambiamento?
L’identità può essere un punto di partenza, ma non lo scopo. Quello che un’associazione dovrebbe mettere in moto e coltivare per avere un impatto trasformativo sul mondo non è un’identità, ma un processo.
Questo processo si attiva quando la nostra motivazione incontra un bisogno di evoluzione del contesto in cui vogliamo operare. Non nasce da una carta dei valori, ma da azioni sperimentali, inserite in percorsi di apprendimento, con ritorni e feedback continui. È lì che può prendere forma un impatto trasformativo.
Questo impatto però si perde, si spegne, quando lo sostituiamo con identità e parole d’ordine rassicuranti.
Parole rifugio
Un amico, con cui ho condiviso queste impressioni, ha ricordato il proliferare – in certi ambienti – di formazioni su “forni in terra cruda” e “compost toilet”. Mi ha ricordato che nelle mie formazioni chiamo queste tipo di concetti “idee rifugio”. Sono segnali di appartenenza. Evocano valori condivisi quasi senza bisogno di spiegazione. Come se bastasse costruire un forno in terra cruda, o piantare alberi, per trasformare il mondo.
Ma non è così.
Possiamo piantare alberi nello stesso modo in cui si assemblano bulloni in una catena di montaggio. Possiamo misurare il successo con la quantità, dimenticando che gli alberi creano e si nutrono di relazioni. Ecosistemi. Strutture complesse e delicate.
Dopo le formazioni sul community organizing – una pratica che ho studiato a lungo, imparato da chi l’ha fondata negli Stati Uniti, e impiegato anni per tradurre, sperimentare e insegnare – spesso le persone ci dicevano, dopo un’ora di incontro, che “loro già lo facevano”.
Col tempo ho capito che “comunità” è un’altra idea rifugio. Una parola su cui si proiettano desideri di appartenenza, senza necessariamente voler intraprendere processi trasformativi.
La danza del cambiamento
Ma non è così che avviene il cambiamento. Non possiamo chiedere agli altri, al mondo di cambiare, se non sappiamo farlo noi. Il cambiamento è una danza da fare insieme, sbagliando i passi, trovando un ritmo comune, tornando sulla pista ancora e ancora. Imparando a sintonizzarsi con chi non si conosce.
È una festa a cui invitare un villaggio che si espande, non una coreografia di pochi da filmare con lo smartphone.
Per questo propongo che – accanto a "chi siamo", "quali sono i nostri valori" e "cosa facciamo" – un’associazione si ponga anche un’altra domanda:
Che contributo diamo al contesto più ampio in cui operiamo, affinché possa trasformarsi e funzionare in modo da migliorare le condizioni di vita di chi lo abita?
Non è una domanda semplice, e soprattutto non è possibile dargli una risposta univoca e statica. Per rispondere occorre avere uno sguardo su di sé e uno sul mondo esterno. Un radicamento nei propri principi, ma anche un movimento verso il reticolo di relazioni, dinamiche, resistenze e bisogni dei luoghi in cui si vuole agire. La risposta a questa domanda può essere data soltanto spiegando come si intende mettere in moto un processo.
Un invito
Per chi voglia approfondire come poter sviluppare progetti che non siano meri strumenti operativi, ma che abbiano un impatto sistemico, capace di incidere realmente sul contesto in cui si inseriscono, il 3 giugno si terrà un webinar con Tiziano Blasi (direttore programmi Fondazione Soleterre):
“Oltre il progettificio – Verso un impatto ecosistemico”
Per chi sente il bisogno di superare la logica delle “liste di azioni” e delle “carte dei valori” per costruire processi realmente trasformativi, questo incontro potrebbe dare strumenti preziosi.