Non possiamo permetterci un terzo settore ridotto così
Il sistema bando-progetto-rendiconto produce organizzazioni precarie, azioni di corto respiro e prive di impatto sistemico. La portata delle sfide del nostro tempo non ce lo permette
Obiettivi da prevedere prima ancora di iniziare.
Scadenze rigide. Progetti che diventano sequenze di attività immodificabili. La realtà sociale usata per trovare giustificazione a quello che occorre scrivere nel bando, invece che entrare in ascolto e relazione con la realtà per orientare l'azione.
Ma è davvero possibile affrontare la complessità e promuovere un cambiamento realmente trasformativo attraverso progetti concepiti così?
“Le sfide del presente sono diventate imponenti: il cambiamento climatico, la crescente espansione senza freni della tecnologia e dell’intelligenza artificiale, le pandemie, l’instabilità politica e persino la minaccia nucleare. Dobbiamo abbracciare la complessità della crisi odierna anziché cercare soluzioni semplificate”.
Lo scrive Tiziano Blasi, direttore Programmi della Fondazione Soleterre, in uno dei suoi interventi su Vita che hanno contribuito ad aprire il dibattito sul progettificio e il suo impatto devastante sul terzo settore.
E’ stato lui a condurre il webinar “Oltre il progettificio - verso una visione ecosistemica” all’interno del per-corso “Attraverso il collasso”.
Tiziano Blasi è una delle poche coraggiose voci che dall’interno del terzo settore stanno ponendo il problema. Un’altra è l’attuale segretaria generale dell’Associazione Italiana Fondazioni ed Enti Filantropici Carola Carazzone, che sempre su Vita ha scritto:
“Il meccanismo dei bandi ha prodotto organizzazioni deboli, nel ciclo della fame, in concorrenza vitale tra loro e un effetto di adattamento, di isomorfismo delle organizzazioni del terzo settore come progettifici”.
Una gabbia mentale
Il problema è che il progettificio non condiziona solo il fare.
Condiziona anche il pensare.
La realtà diventa un insieme di problemi che giustificano soluzioni già pronte, invece che come un campo di potenzialità da coltivare.
Si moltiplicano interventi su interventi inseguendo le parole chiave più in voga: i quartieri periferici mitologici, i temi del momento, le azioni simboliche che sostituiscono la trasformazione reale.
“La spirale del produrre e rendicontare progetti all’inseguimento delle priorità dei bandi e delle mode sbandierate nelle iniziative da parte di finanziatori pubblici e privati”, prosegue Carola Carazzone.
Si replica ciò che già si sa fare, perché non c’è tempo per esplorare o apprendere.
Il fallimento non è previsto. Quindi nemmeno l’innovazione.
“Se volessi testare una metodologia innovativa parteciperei a questa call?”, si chiede Tiziano Blasi. “Considerando la grande fragilità finanziaria di buona parte del terzo settore, la risposta è chiara. I progetti finanziati sono in sé già rischiosi, l’innovazione aumenta i rischi e i rischi aumentano i costi”.
Nel progettificio le persone coinvolte sono viste come beneficiarie.
La collaborazione con abitanti, associazioni, istituzioni? Accessoria o solo dichiarata.
I processi, le relazioni, le dinamiche? Invisibili e ignorati, perché non quantificabili nella reportistica.
Se qualcosa non funziona, si corregge in fretta per far rientrare tutto nei parametri.
Invece che ascoltare quello “scarto” come un segnale. Un sintomo prezioso di un sistema da leggere meglio.
“Lavorare per progetti - continua Carola Carazzone - utilizzato come strumento principe di azione per gli enti del terzo settore ha di fatto suffragato l’idea che i risultati attesi siano raggiungibili attraverso un elenco di attività predefinite in un tempo limitato, con un budget predeterminato tutto o quasi da destinare alle attività. [Un approccio che] ha dimostrato l’incapacità di catturare la fluidità, complessità e durata dei processi di cambiamento sociale, tentando di imbrigliare articolate azioni in maglie lineari, troppo strette, troppo limitate e limitanti. Questa modalità di lavoro è obsoleta, inadeguata e inefficace nella nuova era in cui abbiamo di fronte fenomeni estremamente intersettoriali”.
Uscire dalla gabbia o rischiare l’irrilevanza
Così, poco a poco, il terzo settore si piega alle logiche del sistema che voleva cambiare.
Se vuole restare fedele alla sua missione trasformativa, deve uscire da questa gabbia.
E farne una priorità politica. Strategica. Urgente.
“Non possiamo negare o disconoscere le asimmetrie di potere che esistono tra donatore e grantee, ma per creare una vera cultura dell’impatto, dobbiamo assumerci, come organizzazioni che hanno una missione sociale con l’ambizione di cambiare la vita delle persone che serviamo, la responsabilità di dire con fermezza dei no”, ha scritto il co-direttore di Ashoka Italia Federico Mento.
Per Tiziano Blasi, “il Terzo settore italiano ha davanti a sé una scelta: evolversi o rischiare l’irrilevanza”.
Tiziano Blasi ha coordinato progetti di cooperazione internazionale in partnership con Unione Europea e Nazioni Unite nei Balcani e in Medio Oriente. Ha lavorato con Save the Children, ActionAid e WINGS, network globale di fondazioni filantropiche. Oggi, come Direttore Programmi della Fondazione Soleterre, guida un programma internazionale incentrato sulla salute mentale e l’inclusione sociale e lavorativa.



