Guardati intorno, i segni del trauma sono ovunque
Facciamo tuttə esperienza di un senso di disconnessione fondamentale. La cura è nell’imparare ad ascoltare.
Questo è un articolo in due puntate sul trauma collettivo. Nella prima cerco di definire cause e conseguenze del trauma, specificatamente al livello di dinamiche relazionali collettive. Nella seconda affronto la portata trumatizzante di alcune condizioni sistemiche del nostro mondo, esplorandone l’impatto a partire dall’esempio della pandemia da Covid. In entrambe propongo alcuni strumenti che potrebbero essere adottati a livello collettivo per rendere le organizzazioni e la cultura diffusa maggiormente capaci di prendersi cura di questa condizione strutturale. L’articolo introduce l’incontro online "Creare comunità all'interno dei traumi collettivi".
La parola “trauma” è diventata sempre più popolare negli ultimi anni. Al di là delle definizioni cliniche, c'è un motivo profondo dietro questa diffusione.
Il trauma dà senso a molte sofferenze diffuse, offre una spiegazione a comportamenti considerati soltanto “disfunzionali”, come:
la paura di certe situazioni sociali,
l’ipersensibilità a determinati stimoli,
il bisogno di isolamento,
la sensazione di insicurezza in circostanze apparentemente innocue
la difficoltà ad avere relazioni soddisfacenti
il sentirsi giudicatə o fuori posto.
In un mondo ossessionato dalla performance e dal successo, il trauma riporta l’attenzione al nostro mondo interiore. Ci permette di riconoscere che il dolore non è solo "debolezza individuale", ma spesso una risposta coerente a condizioni esterne.
E racconta anche un’altra verità: viviamo dentro sistemi sociali, economici, ambientali che sono talmente sconnessi dai nostri bisogni di benessere psicologico basilari da generare insicurezza, pericolo e senso di impotenza sistemici.
Che cos'è il trauma?
Il trauma è una reazione a esperienze, spesso ripetute nel tempo, che risultano sopraffacenti per il nostro senso di sicurezza emotiva. Questo rende il trauma un’esperienza soggettiva, perché il limite oltre il quale qualcosa diventa sopraffacente non è lo stesso per tuttə.
Anche quello che è considerato “sicurezza emotiva” varia da persona a persona, ma quello che vorrei sottolineare è un aspetto collettivo del trauma.
Bonnie Badenoch, psicoterapeuta, lo esprime con una potente immagine:
“Siamo evoluti per aspettarci di essere incorporati in un nido di relazioni calorose. Quando questo non avviene, si verifica una violazione del presupposto più basilare della nostra neurobiologia.”
Come si manifesta il trauma collettivo?
Nel 2018, durante il Celebrate Life Festival negli Stati Uniti, Thomas Hübl - l’organizzatore del festival e negli anni successivi del Collective trauma summit - descrisse il trauma collettivo così:
"È come cercare di vedere una casa dall’esterno senza poterne uscire."
Anche qui non pretendo di dare definizioni cliniche, e non tocco manifestazioni più evidenti legate a guerre, disastri, razzismo, violenza di genere, povertà e emarginazione sociale, abusi sessuali, omotransfobia, che toccherò di più nella seconda puntata. In senso più generale, nella mia percezione il trauma collettivo è presente in forma di disconnessione.
Il senso di insicurezza emotiva, che è parte di quello che in psicologia si chiama attaccamento insicuro, genera sia evitamento che ansia. Entrambi questi movimenti impediscono la presenza, cioè l’essere disponibili alla connessione umana con gli altri.
Il non sentirsi al sicuro nelle relazioni porta a strategie per manipolarle a proprio vantaggio, evitarle, renderle superficiali, o transazionali, cioé utilizzate solo per ottenerne un vantaggio.
Manifestazioni comuni di queste strategie sono cercare di ricoprire ruoli dominanti, mettere maschere sociali, auto marginalizzarsi, assumere posture, nascondere propri pensieri e soprattutto sensazioni emotive, deviare l’attenzione sempre e soltanto su cose esterne al proprio mondo interiore, come opinioni sull’attualità, gossip, cose da fare, persone a cui dare colpe, ideali disincarnati.
Inoltre, soprattutto in situazioni di gruppo, emergono necessariamente dinamiche di rango e potere, e quando queste non sono riconosciute e espresse, come nella quasi totalità dei casi, le persone iniziano a rapportarcisi in modo automatico secondo ruoli che hanno sperimentato nel passato, spesso ricalcate sul rapporto con le figure genitoriali: ripetere quello che dicono le persone che sembrano avere maggiore consenso, contraddire a prescindere, restare in silenzio, cercare le simpatie degli altri, non dire ciò che si pensa o si sente davvero.
Come dice Gabor Maté:
“Sopprimiamo la nostra autenticità perché vogliamo evitare il dolore di non essere amati. Quindi entriamo in situazioni della vita e relazioni che non sono autentiche, per cercare l'attaccamento con gli altri. Affinché la forza evolutiva curativa sia incoraggiata, invitata e attivata all'interno di noi, abbiamo bisogno di essere tenuti, abbiamo bisogno di sentirci molto al sicuro. Quando parlo di sicurezza, parlo di connessione.”
Il nostro sistema nervoso cerca sicurezza
La teoria polivagale, ribattezzata anche “la scienza della sicurezza”, ci dice che affinché il nostro sistema nervoso sia disponibile per il coinvolgimento sociale, deve percepirsi in un ambiente sicuro. La sicurezza a sua volta è facilitata dalla connessione, che mette in moto il processo di co-regolazione, una capacità di “contagio positivo” a livello emotivo proprio dei mammiferi. Il contatto fisico consensuale, l’espressione rilassata e accogliente del volto, il senso di vicinanza emotiva, il sorriso, la danza, il cantare insieme sono tutti strumenti con cui da sempre gli esseri umani hanno praticato la co-regolazione anche in presenza di situazioni di pericolo esterno.
Ma queste pratiche apparentemente semplici si sono fatte sempre più rare, sparendo dalla quotidianità di molte persone in un modo silente e normalizzato, con un’accelerazione ulteriore causata dai social media.
La cura della connessione
Come possiamo allora coltivare connessione in un mondo che ci spinge alla separazione?
Uno degli strumenti più semplici — e al tempo stesso più sottovalutati — è l’ascolto.
L’ascolto autentico non è solo sentire le parole. È sintonizzarsi sull'altro. Attraverso l’ascolto possiamo infatti connetterci all’esperienza, il sentire, perfino le emozioni inconsapevoli della persona a cui stiamo prestando attenzione. Questa sintonizzazione è la chiave trasformativa che consente di sperimentare un senso di connessione sia in chi parla che in chi ascolta. Questo stato di presenza e comunanza consente un vero e proprio cambiamento dello stato di coscienza, incluso il rilascio di ormoni come la serotonina, che regolano il sistema nervoso, facilitano il benessere, l’empatia, la collaborazione e il senso di potere delle persone.
L’ascolto, spesso considerato passivo o secondario, è in realtà uno strumento potente di trasformazione personale e collettiva.
E non è un caso che sia anche il cuore pulsante sia di molte pratiche di cura psicologica che di strategie di cambiamento sociale come il community organizing.
Come scrive Romand Coles:
“Se le cose non vanno bene, se la democrazia è debole o assente, se c’è insoddisfazione politica, se il potere è odioso o irresponsabile, se lavorare con gli altri sembra impossibile, se la città è in declino - solo parte del problema riguarda il non riuscire a far sentire la propria voce. L'idea alternativa è che gli sforzi per sviluppare l’espressione politica non si sono soffermati o non sono passati per le arti dell'ascolto. Al suo meglio, la contro-cultura democratica del community organizing mira a coltivare un potere per la democrazia e la giustizia che cresce precisamente nel e attraverso la sua capacità di ascoltare”.
Quando andai negli Stati Uniti per apprendere il community organizing questa fu la lezione primaria e più evidente. Nel diario che tenevo a Milwuakee sulla mia esperienza di formazione sul campo, descrivevo l’arte sviluppata dai migliori community organzier con cui lavoraro come la capacità di “guidare la conversazione ascoltando”.
Una delle chiavi del successo del community organizing come strategia di cambiamento politico è data dalla sua capacità di creare - attraverso migliaia di incontri individuali, di gruppo, formazioni, mentoring ripetuti nel tempo - una competenza culturale diffusa di ascolto. E dove crescono competenze relazionali, cresce anche la capacità collettiva di agire.
Creare comunità dentro i traumi collettivi
Nella formazione "Creare comunità all'interno dei traumi collettivi" esploreremo alcune pratiche di ascolto che hanno il potere di generare un senso di connessione e fiducia, notando come questo possa consentire la creazione di un senso di comunanza come base per la capacità di azione collettiva. Questo il link per registrarsi: