Creare comunità all'interno dei traumi collettivi
Il trauma come cifra della modernità, e la relazione come pratica trasformativa. Un webinar rivolto a chi lavora con gruppi e comunità
Questo articolo, sintesi di un webinar, si rivolge a chi lavora con gruppi e comunità in contesti educativi, sociali o attivisti. Offre una lente relazionale per leggere l’epoca che viviamo, e strumenti per agire con maggiore coerenza e connessione.
Il messaggio di fondo riguarda a necessità di acquisire competenze relazionali urgenti per affrontare un mondo sempre più attraversato da instabilità, rischio e incertezza.
I problemi che abbiamo davanti, sempre più complessi e di carattere sistemico, richiederebbero una grande capacità di azione coordinata e visione comune per sperare di essere affrontati. Ma non è quello che avviene.
Secondo prospettive convergenti — come la teoria dell’attaccamento, la neurobiologia interpersonale e la teoria polivagale — il trauma relazionale diffuso è alla radice degli ostacoli a creare comunità anche quando si desidera farlo. La chiave per la guarigione, individuale e collettiva, risiede nella creazione di relazioni emotivamente sicure.
Queste conoscenze ampliano il concetto di salute mentale oltre l’ambito degli specialisti, indicando nella diffusione di competenze relazionali una risposta urgente alla crescente solitudine e sofferenza sociale.
Perché è importante occuparsi di traumi collettivi
Vorrei per prima cosa riconoscere che quando parliamo in occidente di traumi collettivi lo facciamo la maggior parte delle volte da una posizione di privilegio. Come giustamente insiste il collettivo Gesturing Towards Decolonial Features, è importante distinguere tra sfide a bassa intensità e sfide ad alta intensità. Qui parliamo soprattutto di sfide a bassa intensità. Anche quando nominiamo sfide ad alta intensità, quello che arriva a noi di quelle crisi è una perturbazione a bassa intensità.
Se guardiamo uno dopo l’altro gli avvenimenti che hanno segnato gli ultimi anni, sembra emergere una dinamica di intensificazione di crisi globali distruttive, una di seguito all’altra:
Covid
Invasione russa dell’Ucraina
Massacro del 7 ottobre
Distruzione e crimini contro l’umanità a Gaza
Seconda elezione di Trump
Una caratteristica di queste crisi è che erano inimmaginabili solo pochi mesi prima, e che seppure si manifestano attraverso fenomeni non nuovi, lo fanno con una intensità e distruttività inedita rispetto al passato. Anche il secondo mandato di Trump è molto diverso dal primo, tanto da rappresentare quasi un altro tipo di presidenza.
Bob Doppelt, nel suo libro “Prevenire a guarire i traumi climatici” scrive che stiamo entrando nel “Traumacene”, un periodo multi decennale “in cui le sofferenze e i traumi individuali, comunitari e sociali generati direttamente e indirettamente dall’emergenza climatica si verificheranno su una scala mai vista prima nei tempi moderni”.
Si dice che le crisi possano rappresentare opportunità, ma questo dipende dal modo in cui rispondiamo alle crisi. Come scrive Doppelt,
Le persone traumatizzate non riescono a risolvere problemi complessi come l'emergenza climatica. Tendono a rifugiarsi in una modalità di sopravvivenza autoprotettiva che produce negazione e dissociazione e crea opposizione a tutto ciò che sembra minaccioso.
La capacità sociale organizzata di rispondere in modo lucido, proattivo e compassionevole può fare la differenza tra la possibilità di utilizzare la crisi come opportunità di trasformazione, o la caduta in una spirale di caos e violenza.
In prospettiva questo lavoro può iniziare il processo di adeguamento dei nostri sistemi sociali a un mondo sempre più attraversato da crisi sistemiche che producono senso di pericolo, incertezza e instabilità.
Cos’è il trauma, come avviene e perché è pervasivo
La pervasività del trauma nella nostra società fu scoperta per caso.
Nel 1985, il dottor Vincent Felitti, direttore del Dipartimento di medicina preventiva Kaiser di San Diego, non riusciva a capire perché più della metà delle persone nella sua clinica per l'obesità si ritirava dopo aver perso peso con successo.
Perché persone in sovrappeso di 136 kg, si ritiravano pur avendone persi 45 grazie al programma?
Felitti decise di fare interviste faccia a faccia con un paio di centinaia di abbandoni. Usò una serie standard di domande per tutti. Per settimane, nulla di insolito venne fuori dalle risposte alle domande. Nessuna rivelazione e nessun indizio.
Poi un giorno per caso, racconta lo stesso Felitti:
Ho pronunciato male una domanda a una paziente, probabilmente per il disagio nel chiedere quando fosse diventata sessualmente attiva.
Invece di chiedere: “Quanti anni aveva quando è stata sessualmente attiva la prima volta?”, ho chiesto, “Quanto pesava quando è stata sessualmente attiva per la prima volta?”
La paziente, una donna, rispose “18 kg”, scoppiò in lacrime e aggiunse: “Fu quando avevo quattro anni, con mio padre”.
Felitti improvvisamente capì cosa aveva chiesto.
Mi sono ricordato di aver pensato, “Questo è solo il secondo caso di incesto che ho avuto in 23 anni di pratica”. Circa 10 giorni dopo, mi sono imbattuto nella stessa cosa. Ogni altra persona forniva informazioni sull'abuso sessuale infantile. Ho pensato, “Questo non può essere vero. Le persone saprebbero se fosse vero. Qualcuno me lo avrebbe detto nella facoltà di medicina”.
Delle 286 persone intervistate da Felitti e dai suoi colleghi, la maggior parte era stata abusata sessualmente nell’infanzia.
Nacque così l’Adverse Childhood Experiences Study, o ACES study (Esperienze infantili avverse), il più grande studio di salute pubblica mai effettuato, condotto su 17,421 pazienti.
2/3 degli adulti nello studio avevano sperimentato uno o più tipi di esperienze infantili avverse. Rispetto a persone con zero ACE, quelle con quattro categorie di ACE hanno un rischio maggiore di 240 volte di epatite, avevano il doppio delle probabilità di essere fumatori, 12 volte più probabilità di aver tentato il suicidio, 7 volte più probabilità di essere alcolizzati e 10 volte più probabilità di aver iniettato droghe di strada.
Queste scoperte hanno aperto una nuova comprensione del trauma come esperienza diffusa, silenziosa e spesso invisibile. Ma la domanda più inquietante è: e se fosse la nostra stessa architettura sociale a essere tossica?
La normalità traumatica
Concentrare l’attenzione sugli abusi sessuali o altre esperienze infantili avverse come la presenza di genitori alcolizzati, violenti o incarcerati, mette in secondo piano e normalizza altre situazioni più comuni che hanno un effetto traumatico.
Una di queste è la trascuratezza emotiva, il lasciare i bambini soli o senza sufficiente rispecchiamento e sintonizzazione nel vivere stati emotivi difficili. Una situazione molto più comune di quanto si pensi.
Ma come sottolinea Gabor Maté, molte delle condizioni strutturali della modernità hanno un effetto tossico sulla salute mentale delle persone. Come scrive nell’introduzione al suo libro Il mito della normalità. Trauma, malattia e guarigione in una cultura tossica, “le realtà più ovvie, ubiquitarie e importanti sono spesso quelle più difficili da vedere e da commentare”.
E continua:
In altri termini, sono proprio le caratteristiche della vita quotidiana apparentemente più normali che hanno disperatamente bisogno di essere sottoposte a un esame minuzioso. Soddisfare gli attuali criteri della normalità significa, per molti versi, conformarsi a richieste profondamente anormali rispetto alle esigenze della nostra natura, dunque malsane e dannose sul piano fisiologico, mentale e persino spirituale.
Bonnie Badenoch, psicoterapeuta ed esperta di neurobiologia interpersonale, lo esprime con una potente immagine:
Siamo evoluti per aspettarci di essere incorporati in un nido di relazioni calorose. Quando questo non avviene, si verifica una violazione del presupposto più basilare della nostra neurobiologia.
Cosa ci serve (secondo la neurobiologia interpersonale)
– Presenza
– Contatto
– Rispecchiamento
– Sintonizzazione
– Rassicurazione
Cosa troviamo nella realtà attuale
– Genitori assenti o sopraffatti
– Assenza di comunità (“Ci vuole un villaggio per crescere un bambino”)
– Assenza di gioco spontaneo e con gli altri
– Assenza di contatto con la natura
– Bullismo e social media
– Educazione basata su obbedienza, capacità unicamente cerebrali, voti
– Competizione
– Gerarchie e minacce alla sopravvivenza (disoccupazione, licenziamento, accesso alla casa)
Cosa provoca il trauma a livello individuale
La teoria polivagale offre una spiegazione di come il corpo e il cervello comunichino attraverso il sistema nervoso per rispondere alle percezioni di pericolo o sicurezza in diverse situazioni, inclusi fattori di stress quotidiani. Quando percepiamo una minaccia o un pericolo, l'amigdala attiva istantaneamente il sistema nervoso autonomo, che mobilita il nostro corpo e le nostre emozioni per rispondere in tre modi: attacco, fuga o congelamento.
Condividiamo queste tre risposte con gli altri mammiferi, ma come esseri umani abbiamo sviluppato una quarta strategia difensiva chiamata “compiacenza”.
Introdotta da Pete Walker nel suo libro “Complex PTSD: From Surviving to Thriving”, la “fawn response” rappresenta un meccanismo automatico di ipervigilanza verso i bisogni e le aspettative altrui.
La priorità diventa quella di evitare il conflitto e mantenere l’approvazione degli altri, spesso sacrificando la propria voce e i propri bisogni.
La teoria polivagale ci spiega che il nostro sistema nervoso è progettato per attivare difese automatiche ogni volta che percepisce un rischio.
E la parola chiave è proprio questa: percezione.
Perché anche in assenza di un reale pericolo, possiamo reagire come se lo fossimo.
E perché viviamo in una cultura “pericolosa” a livello sociale, perché disattende strutturalmente i bisogni relazionali di base.
La teoria polivagale ci offre però anche un potente rimedio, la co-regolazione.
Come scrive lo stesso Porges,
La teoria polivagale porta a comprendere che la connessione e la co-regolazione con gli altri sono un nostro imperativo biologico. Facciamo esperienza di questo imperativo come una ricerca innata di sicurezza.
Molti dei traumi di cui facciamo esperienza, individualmente e collettivamente, non possono essere "risolti" da soli. Possiamo però iniziare a guarire creando spazi e relazioni dove la sicurezza emotiva non sia l’eccezione, ma la base. Questo è il cuore del lavoro comunitario oggi: non solo affrontare le crisi, ma costruire nuove forme di co-esistenza, più sane, coraggiose e radicate nella nostra comune umanità.
Molti dei traumi di cui facciamo esperienza hanno un’origine relazionale, ma sono proprio le relazioni con gli altri il più potente strumento di guarigione e trasformazione che abbiamo a disposizione.
Perché a livello collettivo influenza le dinamiche di potere e controllo
Come scrive CJ Patterson su Cultural PTSD & Power:
L'incessante ricerca del potere viene inquadrata solo come un'ideologia da disdegnare o da difendere con forza. Ma se la si osserva attraverso la lente del trauma, come il disperato tentativo di un gruppo di consolidare il potere per sentirsi al sicuro, è difficile non considerarla una reazione basata sul trauma.
Il trauma può produrre modi di percepire alterati negli individui e nei gruppi (prevale il pensiero basato sulla paura: il mondo si divide tra sicuro e insicuro, la ricerca del potere diventa smisurata).
Qualsiasi "minaccia" di perdita di potere si confonde con le esigenze di sopravvivenza.
In modalità sopravvivenza, nessun essere umano si concentra sull'equità, sui diritti altrui o su strategie a lungo termine.
Come identificare i segni del trauma sistemico nelle nostre organizzazioni e gruppi
L’articolo più letto nel 2024 sulla Standford Social Innovation Review, una delle riviste più influenti sul cambiamento sociale, è intitolato “Sistemi di guarigione” ed è dedicato al “trauma sistemico”.
Nell’articolo individuano 5 strategie per individuare e occuparsi del trauma sistemico.
1. Le risposte sistemiche al trauma imitano le risposte individuali al trauma.
In parole povere, le risposte sistemiche al trauma imitano le risposte individuali al trauma: stesso schema, diverso ordine di grandezza.
2. I sistemi portano con sé il trauma perché sono relazionali.
Questa nozione di trauma che fluisce attraverso le nostre interazioni e relazioni offre una potente intuizione su come il trauma venga amplificato su scale più ampie fino a finire intrappolato in un sistema e codificato nel comportamento di quel sistema nel tempo.
3. I leader devono riconoscere sia il proprio trauma che il trauma sistemico che ha un impatto sugli altri.
"Lavorare sul nostro trauma" ci permette di migliorare la nostra capacità di notare quando agiamo in base alle nostre risposte traumatiche predefinite. Allo stesso modo, ci aiuta a identificare le risposte traumatiche degli altri e a distinguere tra il loro comportamento quando sono in uno stato di attivazione e la loro identità come persona. Permette inoltre di relazionarsi con gli altri in modo empatico e umanizzante e di individuare modalità di lavoro che riducono la probabilità di innescare o ritraumatizzare altre persone nel sistema, in particolare le più vulnerabili.
4. I sistemi che necessitano maggiormente di guarigione spesso sono quelli che oppongono maggiore resistenza.
Invece di sovrapporre continuamente soluzioni ben intenzionate a sistemi traumatizzati, chi promuove il cambiamento potrebbe concentrarsi sulla creazione delle condizioni per la guarigione e la riparazione. Il processo di creazione di tali condizioni ci permette di vedere il problema e le persone coinvolte in modo diverso, aprendo nuove modalità di relazione e potenziali percorsi d'azione che altrimenti non sarebbero possibili.
5. Guarire le relazioni tra le persone in un sistema può cambiare il comportamento del sistema.
Il potere curativo delle relazioni è forse il punto di leva più importante per riprogrammare radicalmente il comportamento di un sistema e i risultati che produce.
E poi concludono:
Osservare il trauma attraverso una lente sistemica mette in luce una verità ovvia: la dimensione collettiva del trauma richiede un contesto collettivo per la guarigione. In gran parte del mondo occidentale, si dà per scontato che la guarigione del trauma debba avvenire individualmente e in privato, come nello studio di uno psicologo. E sebbene la terapia sia assolutamente appropriata in alcune circostanze, non è sufficiente per guarire dalle ferite collettive.

